Cosa succederà all’industria della moda nel mondo?
Mi è tornata alla mente questo brano scritto da Michael Jackson nel lontano 1995, avevo malapena 13 anni.
Artista lungimirante e sempre sensibile alle tematiche sui bambini sull’ambiente.
La canzone dice…
Che cosa abbiamo fatto al mondo? Guardate che cosa abbiamo fatto.
Cosa ne è della pace che avevate promesso essere il vostro figlio unico? Che ne è dei campi di fiori?
Vi è un tempo? Cosa ne è di tutti i sogni che dicevate appartenerci?
7 anni dopo Il collasso di Dhaka garment factory in Bangladesh e una pandemia che ancora non ha finito di intaccare il sistema mondiale.
Siamo al sesto posto dell’industria manifatturiera nel mondo e mentre il made in Italy lascia sempre più posto al made in china mi chiedo come cambierà il fashion system.
Il sistema moda deve cambiare, doveva già farlo da molto tempo. Ma le grandi case e multinazionali hanno solo pensato ad arricchirsi le loro tasche e in certi casi senza tenere conto della tutela dei loro dipendenti.
Il fast fashion ha rovinato completamente il mercato e la stessa democratizzazione della moda che si da un lato ha aiutato le classi più svantaggiate ma dall’altra ha messo in moto un sistema malato di produzioni superflue e destinate per l’80% agli inceneritori.
Zara ha segnato l’inizio di questa tendenza in America a New York nel 1978 e già con l’arrivo dei primi cinesi nel garment district di New York, con l’apertura delle warehouses, finalmente tutti gli americani potevano comprare a prezzi bassi qualsiasi genere di abbigliamento.
Se pensiamo che quest’anno il settore moda ha toccato l’1,5 trillioni di $ e con una crescita di domanda di scarpe e abbigliamento, viene paura pensando che l’80% di quanto prodotto finisca nelle discariche.
Sapete che il tessuto poliestere è realizzato con petroli inquinanti, non è biodegradabili e ogni volta che laviamo un capo lascia delle particelle microplastiche negli oceani che a loro volta inquinano l’eco sistema marino e di conseguenza inquinano il nostro cibo?
Il 10% dei residui di carbone al mondo viene rilasciato dalle industrie moda e i consumi di acqua sono altissimi.
Per non parlare del tanto amato cotone che si è una fibra naturale, ma quanti passaggi deve fare prima di diventare cotone, alti consumi d’acqua e agenti chimici che ancora una volta disturbano il nostro ambiente. Brutta storia eh?
Mi chiedo allora ha senso tutto questo?
Non è forse giunto il momento di cambiare e dare una svolta?
Da designer e consumatrice dico che dobbiamo essere noi in primis a mettere le regole.
Quando compriamo un capo dovremmo iniziare a controllare l’etichetta, chiedere il tipo di tessuto la provenienza, le cuciture e se veramente amiamo quel capo e vale come qualità prezzo.
Ho promosso la moda sostenibile e lo slow fashion da quando ho intrapreso la carriera di direttore creativo del mio brand.
Sarà per vari fattori culturali e predisposizioni personali ho sempre sostenuto uno stile di vita olistico e di conseguenza una moda sostenibile ed etica.
Ho portato dall’india una seta vegana chiamata ahimsa silk, il cui inventore Kusuma Rajah ha avuto l’intuizione di salvaguardare la farfalla al termine dello sviluppo del bozzolo. Fashion with no victims!
Nel 2017 ho promosso la mia campagna moda della collezione ahimsa, sostenendo così donne madri in villaggi dell’Uttar Pradesh, donne i gravi difficoltà economiche.
Oggi ci sono nuovi brand nati anche con concetti di recycling come ad esempio ECOALF, azienda spagnola il cui claim è chiaro BECAUSE WE DON’T HAVE A PLAN B.
L’azienda recupera dagli oceani tutta la plastica e realizza il tessuto nella casa madre per realizzare capi outwear.
Ricordando il tragico incidente in Bangladesh, nell’azienda di Djaka, una delle più grosse tragedie nel sistema moda, le regole del gioco devono cambiare.
Ci vuole innanzitutto più sicurezza e tutela dei dipendenti, se Primark fosse stato più diligente questa tragedia si sarebbe potuta evitare e non ci sarebbero state 1100 vittime che sono costate 10 milioni di $ all’azienda inglese.
Sono finiti gli anni ‘90, gli anni d’oro dei grandi stilisti, delle top models, della vera ricchezza. Non bisogna più essere affamati di soldi perchè post pandemic sarà minimal e anche il nostro eco sistema ci ringrazierà.
Nella mia vision di post pandemic fashion spero ci siano più amanti della moda consapevole che comprendano il giusto valore di ciò che acquistano.
Abiti usati, scambio di abiti, capi con materiali riciclati, o con materiali naturali segnano secondo me il futuro di questa nuova era.
Dare spazio a chi è da sempre partito con un aspetto filantropico contro i colossi moda che hanno pensato alle riviste patinate e ad arricchirsi le tasche.
Sono pochi coloro che già avevano sposato questo filone da Vivienne Westwood a Stella mc Cartney.
Non fa una capsule sostenibile un brand sostenibile.
Gli aspetti olistici devono valere in toto.
Non posso davvero che sperare che sia davvero l’inizio di una rinascita di produttori e consumatori più consapevoli ed etici.
Ci vuol trasparenza e tracciabilità nel sistema di produzione.
Un gruppo di sostenitori moda etica e sostenibile Fashion revolution, hanno promosso la campagna di comunicazione Who made my clothes? per sensibilizzare il consumatore.
Sapere la reale provenienza del capo, chi lo ha prodotto e che tipo di materiali ha usato saranno elementi che incideranno su un acquisto pensato e non promosso da un momentaneo impulso.
Aspetto così qui in Zimbabwe un mondo più green, etico, consapevole e sostenibile perchè la moda e il bello deve fare del bene a tutti.